Napoli è l’epicentro della cultura (e coltura) italiana del pomodoro: tutto è cominciato grazie a un intreccio unico di circostanze storiche, caratteristiche geografiche e una buona dose di creatività partenopea.
Le prime potenze coloniali europee portarono dalle Americhe ricchezze inestimabili, non ultimi prodotti come le patate, il mais, e naturalmente i pomodori.
La Spagna era allora un regno sconfinato, l’impero su cui non tramontava mai il sole di Carlo V; e il Vicereame di Napoli era uno dei suoi fiori all’occhiello.
A dispetto della diffidenza generalizzata con cui erano stati accolti i pomodori (che per diverso tempo furono considerati poco più che una esotica pianta ornamentale), i contadini napoletani non tardarono a scoprire come farne buon uso.
Il clima mediterraneo e il fertile suolo vulcanico delle pendici del Vesuvio si rivelarono perfetti per coltivare i pomodori, e selezionando con pazienza le piante più produttive e dai frutti migliori, i primi esemplari dalle bacche gialline lasciarono il posto ai saporiti pomodori che conosciamo oggi.
Arriviamo così al 1692, quando Antonio Latini, capocuoco al servizio del reggente spagnolo Esteban Carillo y Salsedo, pubblicò il suo libro “Lo Scalco alla Moderna”; un compendio di ricette, indicazioni e consigli per “l'arte di ben disporre li conviti”. Qui appare la prima ricetta mai scritta di una salsa al pomodoro, quasi per ironia chiamata “salsa alla spagnuola”:
“Piglierai una mezza dozzina di pomadore, che sieno mature; le porrai sopra le brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il coltello, e v’aggiungerai cipolle tritate minute, a discrezione, peparolo pure tritato minuto, serpollo in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accommoderai con un po’ di sale, oglio, e aceto, che sarà una salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro”.
Pomodori arrostiti, cipolle, peperoncino e timo, sale, olio e aceto: buona oggi come allora.
E questo, solo per parlare del pomodoro; ma naturalmente anche la pastasciutta e la pizza sono nate nei vicoli di Napoli, frutto della fantasia di una città in cerca di nuovi modi semplici e buoni per sfamare il numero crescente dei suoi figli.
Per molti secoli infatti la cucina partenopea si era basata su ortaggi, erbe e minestre, tanto che i napoletani erano chiamati “mangiafoglie”; il piatto più rappresentativo era la minestra maritata, fatta di carne e verdure di stagione.
Tra la fine del ‘600 e il ‘700, tuttavia, la popolazione della città crebbe al punto che i prodotti degli orti non bastavano più; entra in gioco allora la pasta, buona, nutriente e soprattutto facile da conservare. Ed ecco che Napoli diventa la città dei “maccaroni” e della pizza.
Negli anni di Goethe e del suo Viaggio in Italia, i maccheroni si vendevano in strada per pochi soldi e si mangiavano con le mani, come Totò in “Miseria e Nobiltà”.
Già, la nobiltà.
Il fatto era che, sebbene fosse un piatto povero, la pastasciutta piaceva a tutti, nobili e plebei; ma la puntigliosa etichetta di corte proibiva di toccare il cibo con le mani.
Le posate dell’epoca comprendevano cucchiai, coltelli e forchettoni adatti solo per infilzare i bocconi di cibo; sembrava dunque che per le persone altolocate la pasta dovesse rimanere un piacere proibito.
Questo finché l'ingegno napoletano non inventò anche la forchetta: secondo la tradizione, la forchetta a quattro rebbi, adatta ad avvolgere la pastasciutta, sarebbe stata inventata dal ciambellano di corte di Ferdinando IV di Borbone, Gennaro Spadaccini.
E fu così che gli spaghetti fecero il loro trionfale debutto sulla tavola del re di Napoli.
La prima raffigurazione della pietanza giunta fino ai giorni nostri non potrebbe essere più caratteristica: si tratta di due figurine del presepe settecentesco conservato alla Reggia di Caserta, dove si possono vedere due persone intente a dividere un piatto di spaghetti al pomodoro.
Alla pietanza mancava ormai solo il battesimo, ma anche a questo ha provveduto un Napoletano: è infatti nell’opera del commediografo Antonio Viviani, "Li maccheroni di Napoli" del 1824, che la parola “spaghetti” viene stampata per la prima volta.
Alla prossima forchettata di spaghetti, ricordiamoci di ringraziare Napoli.
Un'occasione per festeggiare le origini della pasta